Che la pianificazione urbana in sé avesse qualcosa a che vedere con il colonialismo, ce n’eravamo accorti da tempo. Dalla “limpieza étnica de los señoritos” di Manuel Vázquez Montalbán, allo “spatial cleansing” di Michael Herzfeld (cioè ethnic cleansing però attraverso lo spazio), fino alla “nuova frontiera urbana” di Neil Smith, abbiamo sempre fatto riferimento a metafore come quella di Touché pas a la femme blanche di Marco Ferreri (gli espulsi di Les Halles sono gli indiani, e i cowboy i gangster pagati dagli speculatori), o a approcci come il “military urbanism” di Stephen Graham e l'”architettura dell’occupazione” di Eyal Weizman. Ma ancora non avevamo trovato una prospettiva così completa come quella sviluppata dall’urbanista australiana Libby PORTER, che ha studiato l’uso della pianificazione come strumento di esclusione spaziale degli aborigeni in favore della popolazione “anglo”; cioè, l’urbanismo come complemento e continuazione del colonialismo.
- Libby PORTER (2007) Unlearning the Colonial Roots of Planning è il libro [disponibile in PDF] in cui si espone questa teoria; linkiamo anche una rassegna in italiano, [in DOC] compilato dall’urbanista Giovanni Attili dell’Università di Roma.
- L’urbanista Oren Yiftachel, dell’università israeliana Ben-Gurion, ha elaborato un discorso parallelo, a partire dalla sua lotta al fianco dei beduini del Negev per proporre una pianificazione dei dintorni di Bercheeba differente dalla politica di “terra bruciata” del governo israeliano. Vedere il video Israel’s Mabo, realizzato dalla televisione australiana CNE [video su youtube] (Eddie Mabo è il più importante attivista aborigeno in difesa del diritto alla terra)